La relazione genitori-figli nello sport
Perché i bambini fanno sport? Perché hanno un istinto naturale a muoversi e si divertono un mondo. Per motivarli sono necessari però incoraggiamenti positivi e il sostegno dei genitori. Dialogo fittizio con Laura, giovanissima calciatrice.
Laura è una bambina vivace e attiva come tante. La sua passione è il gioco del calcio. Laura non esiste realmente. È uno dei personaggi di un piccolo libro pubblicato nel 2003 dall’Associazione svizzera di football, intitolato «Laura e i suoi amici sognano la grande partita». Il calcio è la sua grande passione. Si reca regolarmente nel «campo di carote» per giocare delle lunghe partite animate.
È ormai assodato che per i bambini, indipendentemente dal loro stato di salute, il movimento sia una necessità fisiologica e parte integrante del loro processo
di sviluppo, perché favorisce una crescita fisica e psicologica armoniosa, aumenta l’agilità e la forza e di conseguenza migliora l’autostima, il senso di benessere, le capacità di apprendimento e la socializzazione.
Per motivare i bambini al movimento è necessario però un contesto sociale capace di offrire stimoli positivi e anche il sostegno di adulti (genitori, insegnanti, allenatori, monitori, ecc.) consapevoli dell’importanza dell’attività fisica stessa e del ruolo che essi ricoprono. Ma tutto ciò cosa significa concretamente per Laura? «Io tutto quello che voglio – risponde la bambina – è giocare con i miei amici sul nostro campo di carote e fare le capriole quando qualcuno fa un goal fra i due alberi che usiamo come porta. Mi piace da morire correre intorno al campo urlando di gioia!»
Un vero e proprio piacere
Parole semplici che esprimono un concetto ancora più semplice ma che noi, adulti, tendiamo a sottovalutare: il divertimento. Soprattutto prima dell’adolescenza, i bisogni dei bambini sono spesso trascurati perché siamo noi a dettare le regole secondo la nostra esperienza.
In ogni sport c’è qualcosa che piace al bambino e sistematicamente egli cerca di trasmetterlo a chi gli sta vicino. Se il suo entourage riesce ad ascoltare i suoi desideri e le sue esigenze, lo sport smette di essere un impegno da svolgere per forza e diventa un vero e proprio piacere.
Gli stessi psicologi confermano che nel complesso rapporto genitore-figlio s’instaura una specie di transfert. Inconsciamente chi genera scarica sul generato tutte le frustrazioni e le insoddisfazioni collezionate nel corso della vita precedente la sua nascita. Chi non è stato brillante a scuola pretende che la prole consegua ottimi risultati in questo ambito, chi invece avrebbe tanto desiderato diventare un campione sportivo ma non ha potuto coronare il proprio sogno ambisce a vedere il figlio sul gradino più alto del podio di ogni competizione cui partecipa.
In sintesi, i successi di un giovane atleta possono rappresentare un punto di riferimento ideale per i genitori (una forma di status symbol). Tramite il figlio si vive un prolungamento della nostra personalità, in termini di ideali e di aspirazioni realizzati attraverso la sua riuscita.
Rimanere a contatto con la realtà
Tutto ciò parte sicuramente da buoni propositi, perché i genitori sono automaticamente orientati a desiderare il meglio per i figli e a evitare di commettere con loro gli errori commessi. Ma occorre anche evitare di perdere il contatto con la realtà.
«Il mio papà e la mia mamma invece mi fanno sempre i complimenti alla fine di ogni partita. Anche quando la mia squadra ha perso. Mi dicono che l’importante è partecipare e che il risultato finale non conta. E io penso che abbiano proprio ragione, perché dai… non siamo mica dei calciatori veri come Ronaldinho o Kakà…»
Da vari studi condotti sul rapporto fra gli atteggiamenti dei genitori e le attività sportive dei figli emerge che le famiglie dei ragazzi molto dotati sono particolarmente coese e al loro interno intrattengono relazioni piuttosto chiuse.
Queste ricerche tendono ad evidenziare come in queste famiglie aleggi una forma di focalizzazione sul bambino (child-centeredness). Ciò significa che gli adulti attribuiscono valori più elevati a dimensioni come rendere al massimo, il successo, la vittoria, la produttività, l’eccellenza, la persistenza. Dei valori che spingono padri e madri a controllare i compiti scolastici dei loro figli e gli impegni di allenamento sportivo, ad assistere alle lezioni di piano, agli incontri di nuoto, alle partite di basket, a preoccuparsi spesso di iscrivere il bambino alle attività per cui è dotato, fungendo da primi insegnanti e partecipando direttamente.
Il genitore «utile allo sport»
«La mia maestra ha detto che da quando ho cominciato a giocare a calcio con l’allenatore sono molto più ‹disciplinata› in classe. Ho chiesto alla mamma cosa volesse dire questa parola e mi ha spiegato che significa comportarsi meglio e ascoltare quando gli altri parlano e ha detto che è vero, perché anche a casa sono più brava…»
I bambini che praticano regolarmente un’attività sportiva guidata possono trarre insegnamenti sociali molto utili da questa esperienza, a patto però che nel progetto di formazione sportiva i genitori occupino uno spazio adeguato. In altre parole, la famiglia deve essere coinvolta in modo equilibrato nella «carriera sportiva» del giovane. Nelle pubblicazioni di psicologia dello sport il genitore «utile allo sport» è definito nel modo seguente:
- è presente, si impegna a conoscere e capire il proprio figlio per le qualità, i limiti, le intenzioni, i desideri, i bisogni, gli errori ed i successi;
- stima il figlio nonostante gli errori e i limiti;
- rispetta le regole, gli avversari, gli allenatori e gli istruttori e le decisioni arbitrali;
- fa critiche costruttive utilizzando messaggi chiari;
- incoraggia a competere sulla base delle proprie capacità;
- rispetta il ruolo dei tecnici (allenatori e istruttori) e collabora con loro, evitando di esprimere rimostranze o critiche in presenza dei figli;
- chiede, se lo ritiene opportuno, chiarimenti ai tecnici evitando così di alimentare pettegolezzi che creare tensioni tra gli atleti.